La palla di piombo al piede

L’eccellente articolo di Emilio Palazzi merita un commentario più completo; egli giustamente mette il dito in una ferita dolorosa e di difficile cura. Anch’io in questi giorni ho avuto modo di esprimere e di ripetere idee similari proprio su queste pagine di LS. Ho anche ripetuto, ricordando che pure in Francia, come da noi in Italia, ci si chiede “cosa fare per uscire da questo vicolo cieco?” La realtà è che ci troviamo in un vero labirinto senza uscita visibile. Le colpe sono nostre, infatti, abbiamo costruito pazientemente un circolo vizioso dal quale non sappiamo più come uscire, quando ci servirebbe urgentemente uno sfogo capace di stimolare quello che i liberali chiamano il circolo virtuoso. Non si tratta di un modello nuovo, ma di quello antico in cui tutti si occupano dei propri interessi, i quali alla fine si incontrano e si fondono spontaneamente nella cooperazione e nell’interazione; un sistema che noi chiamiamo libero mercato; un modello, purtroppo, mai abbastanza bene compreso, perché mai sufficientemente e correttamente spiegato, nonostante la ricchezza della bibliografia esistente: Carl Menger, Ludwig von Mises, F.A. von Hayek, e per rimanere in casa nostra, Bruno Leoni, un illustre – ahimè – sconosciuto in Patria, ma frequentemente citato dai liberali di tutto il mondo.

Come ho già avuto modo di dire più di una volta, un intellettuale francese – di cui non ricordo il nome – sul quinto canale francese, la settimana scorsa, a proposito della questione della grave crisi che minaccia tutta l’Europa industrializzata, alla domanda, come fermare questo declino, ha fornito una risposta che dovrebbe indurre tutti gli Europei alla meditazione:

qui ci vuole una rivoluzione” e, sotto gli occhi oltremodo perplessi degli altri interlocutori ha aggiunto: “sì, proprio una rivoluzione: una rivoluzione culturale, una rivoluzione economica“.
Voleva dire che era necessario voltare pagina, abbandonare l’unisono del coro uniforme, per adottare la sinfonia dai suoni diversi che armonizzano fra di loro. E’ necessario rompere certi paradigmi responsabili del declino a cui il continente sembra non riuscire a sfuggire.

Il nostro problema italiano è, grosso modo, lo stesso di quello francese che a parità del nostro, non è un problema recente, ma è un problema strutturale che giunge da lontano. In realtà, si tratta di tutta una serie di problemi che si accumulano ed agiscono negativamente sull’insieme del sistema. Molti anni fa già l’ex ministro gaullista Alain Peyrefitte, autore – fra l’altro – di un bellissimo saggio, LA SOCIETE’ DE CONFIANCE (LA SOCIETA’ DELLA FIDUCIA) – che i nostri politicanti potrebbero ben leggere – pubblicò il saggio LE MAL FRANÇAIS in cui elenca una buona parte dei mali e dei problemi che quella Nazione, ricca di tradizioni tanto storiche come culturali, si portava appresso. Questi stessi mali hanno origini e cause comuni ai mali italiani. C’è da aggiungere che proprio da questo illuminato autore, che servì la Francia come ambasciatore (fra l’altro anche in Unione Sovietica ed in Cina) arrivò negli anni ’90 la pubblicazione di un lungo saggio: QUAND LA CHINE S’ÉVEILLERA … LE MONDE TREMBLERA (Quando la Cina si sveglierà… il Mondo tremerà). Ed è proprio ciò che constatiamo in questi giorni e che costituisce il tema di cui così insistentemente si discute attualmente.

Oggi, molti vorrebbero invocare un certo protezionismo contro l’invasione dei prodotti cinesi; dimenticano che l’Europa non ha più la vocazione di concorrere con i Paesi in via di sviluppo, ma deve approfittare del proprio potenziale più prezioso che è il suo Capitale Umano per dedicarsi allo sviluppo di valore aggiunto; per farlo è necessario lasciare ossigeno a chi potrebbe investire in ricerca ed innovazione; cosa impossibile se il potere politico tende ad asfissiare le Imprese e ad estorcere sempre più gli imprenditori.

Dei mali italiani io ho parlato, probabilmente fin troppo e fin dai primi giorni di partecipazione su Legno Storto, ma senza riuscire a sensibilizzare più di una manciata di lettori. Certo, non sono uno scrittore, sono solo un dilettante che ha imparato ad amare il mondo ed i Popoli che la fortuna, ma anche la mia azione, mi hanno permesso di apprezzare. Grazie a tanti paragoni così diversi ho potuto giungere a conclusioni positive sull’indole umana, non molto diverse da come descritta dai pensatori citati poc’anzi. Credo di aver imparato ad apprezzare le diversità che caratterizza Popoli di distinta provenienza, etnia, religione e lingua; infatti, intendo che la diversità sia un valore assoluto.

Ora, i problemi che ci portiamo appresso come un’autentica palla di piombo al piede fin dall’antichità, sono una vera schiavitù; essi sono di diversa natura e non oso ripeterli perché li ho riassunti inutilmente già troppe volte ed in troppe pagine. Mi limito a dire che sono eredità che provengono dalla nostra antica tradizione greca prima, cattolica poi ed ora finalmente da una cultura storicista, pessimista e profetica presa a prestito da un marxismo frettolosamente accettato, senza la necessaria riflessione né l’eccessivo spirito critico che riserviamo ad altri campi.

Ciò che interessa dire è che tutto questo patrimonio culturale sembra coincidere con la condanna del lavoro, visto come una punizione fin da quando “siamo stati cacciati dal paradiso terrestre”. Se non bastasse, la nostra religione ci insegna che pensare a noi stessi è un male e ci invita a praticare la solidarietà in modo ambiguo, amando gli altri senza amare noi stessi. Tutto ciò ha contribuito quindi ad eliminare dalle nostre priorità il concetto del merito in nome di una solidarietà equivoca che non solo non distribuisce ricchezza ma, al contrario, la consuma; e, come effetto a lunga scadenza, deforma tutto il nostro stile di vita; e, se non bastasse, logora le riserve. Allora, sembrerebbe che non ci resta altro che piangere.

Sì, forse bisogna riscoprire la fame, la condizione che in passato ci ha fatto sentire i sintomi della miseria nella carne; proprio perché la fame è una necessità biologica uguale al timore e l’incertezza. E’ dalla fame, dal timore e dall’incertezza che si sviluppa la prudenza che ci insegna ad essere previdenti. Gli altruisti benpensanti vorrebbero produrre un modello privo di necessità e per realizzarlo ci nutrono di certezze, ma sappiamo che quel modello conduce fatalmente al nichilismo; uno stato di evidente malessere che, insieme a buona dose di fatalismo e rassegnazione, già si manifesta con preoccupante frequenza nei nostri ambienti.

Per nostra fortuna non siamo un Popolo violento; ma siamo anche degli incalliti conservatori che temono il cambiamento; ci accontentiamo dei miracoli che la fede ci promette in un avvenire che non giunge mai; crediamo pure nelle promesse dei profeti della nuova religione che pretende insegnare a credere per vedere. Del resto, è più comodo delegare gli altri piuttosto di agire noi stessi, così ci conviene credere ed aspettare che le illusioni si compiano, come abbiamo già creduto in passato, continuiamo ancora oggi; piuttosto di seguire una linea pragmatica che induce piuttosto a stare a vedere per credere. Siamo anche un po’ pigri di cervello ed allora, invece di meditare sulle nostre colpe assumendocele, ci accontentiamo di scaricare le responsabilità sugli altri, pur di giustificare la nostra inerzia.

Ci consoliamo affermando che siamo sempre stati una Nazione povera; che dipendiamo da energie e materie prime importate dall’estero. Ma noi non siamo mai stati una vera Nazione povera; poveri sono piuttosto i Popoli che non si riproducono, gli Esquimesi, per esempio. Ma attenzione, sotto questo aspetto, sì, certo, ci stiamo avviando verso uno stato di povertà molto pericoloso, proprio perché la piramide, dove il numero degli anziani in breve non potrà essere sostenuta dai giovani, si sta capovolgendo.

Inoltre, è utile ricordare, tuttavia, che il più grande patrimonio di un Popolo non sono le sue risorse naturali, o le proprietà materiali dell’individuo, le quali se non applicate in modo adeguato non servono a niente. La ricchezza più importante è il capitale umano; ossia le capacità di mettere a frutto e trasformare le risorse esistenti in natura, aggiungendo valore, innovando. La grande fonte energetica è quella di saper reagire agli eventi senza doverli subire; la crisi si combatte con l’abilità di saper superare gli ostacoli che la natura ci riserva. Il patrimonio umano più importante è, quindi, la capacità di reazione alle necessità, alle avversità; ma per reagire ai bisogni è anche necessario rendersi conto delle necessità che ci tallonano. Non ci renderemo conto che il nostro avvenire è compromesso se non ne sentiamo il dolore; e senza tale consapevolezza non iniziamo una reazione.

Siamo vittime di un modello che ha praticato un deleterio lavaggio del cervello collettivo; che ci ha insegnato che la dignità si realizza nella solidarietà, ultima delle quali quella dello sciopero, per esempio. Invece sarebbe ora di rimettere ordine alle priorità; restituire ai valori i loro veri significati originali: degno è colui che ha delle capacità e le porta a termine, le fa fruttare e non colui che nega il diritto a chi ha iniziative. Degno è il lavoro produttivo e creativo, che distribuisce e non quello distruttivo che consuma. E’ necessario invertire certi valori: la dignità non è un diritto, bensì una conquista.

Le soluzioni ai nostri guai non stanno nel ricatto o nella coercizione, ma nella convivenza pacifica dove gli interessi individuali si incontrano e si fondono per incontrarsi spontaneamente nella cooperazione e nell’interazione e niente è più spontaneo ed interattivo del mercato che agisce come il linguaggio, il quale si adatta ad ogni cambiamento a prescindere dalle regole dei teorici, dei dottrinari e dei dogmatici che vorrebbero imporre le loro regole, la loro legge, la legge della presunzione di coloro che prevedono l’avvenire perché muniti di sfera di cristallo; i cosiddetti sapienti, i profeti veggenti. Ci possono imporre le regole del linguaggio, ma alla fine, i sovrani liberi cittadini scelgono il modo di esprimersi che a loro meglio si adatta.

Forse abbiamo veramente bisogno di riscoprire la fame e l’incertezza, la condizione che in passato ha fatto sentire agli Italiani i sintomi della miseria nella loro propria carne, ma che li ha spinti all’azione, quando uscivamo umiliati e distrutti da un conflitto disastroso; è abbiamo vissuto un male che ci ha destati e finalmente spronato, producendo un miracolo economico che è servito da esempio a molte altre Nazioni.
Ma come fare questa rivoluzione in un Paese dove la gente quando legge qualcosa si limita ad un giornaletto dal colore rosa? O dove una buona parte della stampa lavora in difesa dei propri interessi corporativi e di coloro che s’incaricano di dare continuità a questi antichi privilegi?

L’inizio di questa rivoluzione potrebbe cominciare proprio con la divulgazione di queste idee da troppo dimenticate e che rompono i paradigmi millenari che fin qui ci hanno condizionato. Serve ricordare che altri Popoli hanno sconfitto la miseria rimboccandosi le maniche, proprio come abbiamo fatto noi alla fine della guerra che ci aveva letteralmente ridotto alla fame.

Purtroppo, i simpatizzanti del sistema, i titolari del potere, del modello avverso alla libera alternanza del potere, si sono preoccupati di condannare all’ostracismo ogni idea e qualsiasi letteratura che non fosse quella ufficiale e conveniente alla conservazione della situazione. Hanno fatto di tutto per ridurre al minimo la diversità delle opinioni. Nelle scuole, nelle fabbriche nei luoghi di riunione; perfino in quegli istituti che dovrebbero insegnare l’economia sono ancora fermi a Keynes, dall’equivoca dottrina che aveva praticamente fatto fallire il modello britannico. C’è voluta la riscoperta del liberalismo per ridare ossigeno alla libera iniziativa e nuovo vigore ad una Nazione che oggi può distinguersi dal resto dell’Europa. Un’Europa alla deriva, avviata al declino per mancanza di una adeguata comprensione dell’ordine spontaneo costituito dal mercato.

In un mondo così avverso all’evoluzione, alle iniziative degli individui, in un modello dove il merito degli individui più capaci è lasciato da parte per mettere al centro i soli diritti dei meno attivi, non può promettere un avvenire proficuo; dove il cambiamento “gattopardescamente” si limita a cambiare tutto affinché tutto possa rimanere uguale non può riservare sviluppo e benessere ai suoi cittadini ridotti a sudditi; in un ambiente di questa natura siamo destinati a sentirci inutili, non può prosperare altro che il fatalismo e la rassegnazione, ossia l’incapacità di reagire.