La miopia che ci condiziona

Dinanzi all’andazzo che prosegue a consolidarsi nel nostro tribolato Paese in questi tempi, in cui una certa sindrome di pessimismo tende ad estendersi ad ogni segmento della società, nemmeno i nostri imprenditori sembrano sottrarsi alla rassegnazione ed invece di reagire con creatività, ispirandosi a ciò che avviene altrove,  si lamentano a non finire e si appellano a protezionismi, reclamando interventi ed aiuti da parte del potere politico; così, mi sembra opportuno recuperare – con alcune modifiche – un mio vecchio articolo pubblicato già oltre 10 anni fa sul giornale elettronico liberale www.legnostorto.com a dimostrazione di quanto le cose da noi continuino a non migliorare.Dicevo, allora,  di aver letto con interesse ed altrettanto piacere l’illuminante articolo di Emilio Palazzi che denunciava già allora anche la mancanza di professionalità e la scarsa lungimiranza delle nostre classi imprenditoriali. Era confortante notare come, nonostante le tendenze, si trovavano ancora intellettuali ragionevoli, capaci di interpretare la realtà in un’ottica cosmopolita, non riduttiva ma oltremodo provinciale. Salutavo una di queste voci coraggiose fuori dal coro; un coro monotono, allegro forse, ma ignaro della propria vera condizione precaria, che inneggiava con tanta insistenza a vecchi motivi ripetiti e logorati dalla storia e che la selezione naturale ha definitivamente deprezzato. E nonostante l’evoluzione che s’impone nei vari continenti, qui da noi, ahimè, regna tuttora una mentalità tipica da Paese ancora succube di concezioni politiche da sottosviluppo. Se non bastasse, chi ci governa sembra voler preservare viva la vana illusione secondo la quale noi saremmo ancora il centro dell’ universo, erede dell’impero di un preteso umanesimo latino “progressista”.

Se in Italia le persone con una visione cosmopolita del mondo come Emilio Palazzi [che all’epoca viveva all’estero] fossero più numerose, probabilmente, oggi vivremmo in un Paese ben più moderno, dinamico e prospero. Forse, potremmo aspirare a piazzarci all’altezza – od anche più in alto – di molte altre Nazioni che ultimamente progrediscono a passi da gigante e che in breve ci surclasseranno. Invece, apparentemente, ci resta un triste destino: “tirare avanti”, o seguire il convoglio dell’ Europa controllato da un’ insensibile e prepotente categoria di burocrati che detta norme ed indirizzi, sovente incomprensibili ed incompatibili con le nostre vere e legittime inclinazioni. Qui, la nostra autonomia è affidata alle sorti di un’ imbarcazione che naviga in acque se non proprio agitate, ma certamente incerte, governata da alternati timonieri – i soliti politicanti – che il più delle volte non sono pratici di navigazione e che, soprattutto, non conoscono i mari e le correnti all’infuori delle nostre acque territoriali. I soliti carrieristi egocentrici che si perdono in sterili ed interminabili discorsi sul sesso degli angeli, incapaci di capire i veri problemi ed i reali meccanismi della sovrana economia mondiale. Continuano le loro vecchie discussioni teoriche sulla base delle vecchie parallele convergenti, disputandosi su cosa nasce prima, l’uovo o la gallina. I fenomeni delle esperienze empiriche dai quali ci sarebbero da trarre tante valide lezioni, non sono assimilati. Non sembrano nemmeno capaci di capire l’importanza né la dimensione dei cambiamenti che si verificano altrove ed un po’ ovunque, forse perché per loro il progresso sarebbe conservazione. E quando c’è da assumere posizioni chiare a favore di interessi globali – tanto per riprendere la celebre espressione di chi si è cimentato con la nostra storia recente – preferiscono “danzare il Walzer”, facendo un giretto un po’ di qua ed un altro di là, come si è sempre fatto fin dai tempi più remoti.

Eppure, sembriamo sempre più consapevoli che il nostro mondo è in crisi e che ci stiamo avviando, a passi accelerati, in direzione di un inevitabile declino. Mentre l’abisso si avvicina ed il crollo si mostra sempre più verosimile, affrontiamo indifferenti il pesante clima di un’irrespirabile aria di completa sfiducia, dove uomini e donne, giovani e vecchi si rassegnano ad accettare un futuro sempre più incerto, più oscuro, senza prospettive e dove la massima aspirazione degli individui non è più l’azione attiva, il lavoro, la produzione, il risultato, bensì la modesta meta del passivo lieto riposo: la sospirata pensione.

Così, degno non è più colui che merita un premio per il proprio sforzo, per il risultato perseguito ed ottenuto con determinazione nell’impegno, con la fatica e con sacrificio; degno è chi conquista diritti assicurati da decreti o leggi artificiali più che soggettivi, sovente ottenuti con l’estorsione che si pratica con la minaccia dei ricatti politici, in cui si paralizzano segmenti interi, con contestazioni settarie di piazza e con scioperi settoriali, generali o politici .

La virtù non è più quella classica di altri tempi, in cui si esaltano le doti, le idee innovative e le capacità individuali, ma la s’identifica nella militanza collettiva e con la rinuncia alle attività produttive; non nel costruttivo operato in cui l’individuo può partecipare e contribuire al proficuo benessere, del circolo virtuoso della libera iniziativa di tutti, con la propria abilità intrinseca generata dalla creatività nella versatilità di ognuno, anche e, soprattutto, per la realizzazione di se stesso e nell’interesse proprio specifico e dei suoi cari, grazie al giusto merito. La virtù sembra essere stata sostituita dal tacito consenso.

In questo nuovo spirito in cui l’individuo abdica a se stesso per integrare il solito corporativismo della solidarietà tendenziosa ed ideologica, la passività  si consolida, tutto si inverte: virtuoso diventa colui che nella disciplinata obbedienza militante, orchestrata da una cupola dottrinaria che decreta paralizzazioni delle attività ricattatrici, ordinando che s’incrocino le braccia, come in altri tempi si alzava il pugno sinistro chiuso od il braccio destro con mano aperta tesa. E’ come se ci avessero messo una benda agli occhi per condurci ignari ovunque essi lo desiderino. Hanno indotto il nostro Paese verso un vicolo cieco ed ora siamo arrivati all’anticamera di un’entrata senza uscita; e dopo aver praticamente rinunciato a procreare, ci siamo messi ad allevare gatti che ci ringraziano con le loro fusa ed a mantenere un cane obbediente ed affettuoso in casa, al posto del bambino che piange ma che potrebbe assicurare una continuazione del futuro benessere. Allora, possiamo concludere che ci si trova ormai sull’orlo del precipizio, dove il nichilismo è pronto ad accoglierci con il suo mortale abbraccio.

Ecco che a questo punto l’ultimo e l’unico ambito traguardo sembra ormai essere quello della rinuncia ad ogni ambizione produttiva, creativa, concreta e tangibile; allora, non ci resta che reagire contro il nemico di fuori; ce la prendiamo con gli invasori stranieri attirati dalla nostra passività che vengono, appunto, per  coprire proprio le nostre lacune. Certo, siamo tornati al trionfo dell’inerzia, all’esaltazione dell’ ozio, dove il cittadino, come nell’antica Grecia per definirsi cittadino deve avversare il lavoro, come facevano gli Elleni o, come avveniva con una certa nobiltà di altri tempi, mentre gli schiavi, gli stranieri che lavoravano ed i commercianti che si scambiavano le merci e producevano ricchezza, erano considerati indegni di tale considerazione.

Già, siamo ad una pericolosa inversione dei valori, dove degno è, dunque, il “cittadino” a pieni diritti; dove, secondo questi ambigui nuovi parametri della militanza impegnata, non è più colui che sgobba e produce, ma l’individuo improduttivo privo di ambizioni che disdegna l’utile risultato e che frequenta l’agorà ideologica più “impegnata”, potendosi permettere di proseguire l’antico piacere della conversazione. Quel nostalgico modo di vivere che esalta colui che può godersi il famoso “dolce far niente” che certuni osano celebrare, definendolo come “ozio creativo”. Infatti, come allora, siamo un popolo a cui piace “filosofeggiare” in piazza, del più e del meno, di preferenza su pettegolezzi della più controversa natura, possibilmente, sui particolari intimi o privati della vita altrui, continuando le nostre accalorate divergenze inconseguenti, all’uscita dalla messa domenicale – che si frequenta per salvaguardare le apparenze -, o davanti al caffè o dell’edicola di riviste e giornali altamente politicizzati, sempre più di parte e sempre meno obiettivi, ma che sovente si sfogliano solo, perché anche la lettura è un esercizio faticoso e troppo impegnativo.

Pur attenti alle fugaci mode ed alle passeggere maniere del momento, le nostre priorità sembrano limitarsi agli incontri per la nostra partita a carte al bar, la frequentazione delle palestre ed i programmi televisivi tanto inconsistenti, superficiali quanto volgari, magari predisposti per danneggiare l’immagine dell’invidiato politico più votato; e l’unica reazione in cui riusciamo ad eccellere veramente rimane è quella del monotono piagnucolio come metodiche vittime incomprese, perseguitate dai puntuali complotti degli sfruttatori che già hanno troppo, ma tutto vogliono sempre e solo per sé. Infatti, con massimo impegno guardiamo criticamente con dispetto gli altri, senza fare una più elementare analisi di noi stessi.

Di responsabilità particolari o collettive che ci riguardano mai un unico solo accenno, sempre alla ricerca di un capro espiatorio; c’è sempre qualcuno a cui attribuire alla carlona ogni colpa, specialmente se sorge chi dimostra troppa capacità e proprio per il suo talento il successo gli sorride; nemmeno la responsabilità in contumacia di fare figli ed assicurare un avvenire alla società di domani ci sensibilizza: secondo gli ultimi criteri, i bambini costano troppo e richiedono eccessive attenzioni, anche perché si deve dare a loro tutto ciò che le nostre generazioni anteriori non hanno avuto… Bel futuro ci attende! Con quali fondi assicureremo l’assistenza e la pensione agli anziani dell’avvenire? Questa è un domanda che nessuno si pone; ecco, un’altra prova della nostra leggerezza.

Di fatto, sì, siamo vittime eterne di una delle tante caratteristiche che così bene ci distinguono: la deleteria vanità. Uno di quei vizi congeniti che condizionano la nostra incurabile indole; elemento inequivocabile di una contingenza culturale e genetica che inconsapevolmente portiamo addosso, a cui ci adeguiamo con incomparabile ed indulgente, quanto comodo adattamento, ormai da parecchie generazioni. Ed è come se fosse una droga che alimenta la nostra nazionale presunzione.

Perfino questa nostra mitica pretesa superiorità, in qualità di eredi di antichissime e retoriche nobili tradizioni, ci impedisce non solo di capire o di valorizzare l’utile esperienza di altre moderne Nazioni, di altri Popoli sovente molto più giovani di noi; essa ci priva di un senso critico pragmatico, capace di liberarci dall’ anacronistico passato, per indurci ad abbandonare certe futili illusioni. Siamo stati allenati a guardare tanto indietro che non riusciamo ad interpretare in modo concreto e realista il nostro presente ed al futuro guardiamo imbevuti di teorie alle quali siamo indotti a fidarci più che alla nostra attuale cruda realtà.

Tuttavia, se vogliamo ancora aspirare a qualcosa di più della misera situazione che si prospetta, liberandoci del mero conformismo che fatalmente ci ci limita e ci impedisce di progredire, e se vogliamo avere la misura della nostra vera condizione, è urgente e necessario saper guardare oltre le apparenze, al di là dei ridotti orizzonti delimitati dal nostro corto miope sguardo. Se pretendiamo inserirci in una realtà aggiornata, globalizzata e progressista nei fatti, non possiamo continuare ad ignorare le leggi economiche che guidano i mercati: il successo di alcune Nazioni emergenti ci dovrebbe far meditare; anzi, ci dovrebbero indurre a focalizzare altri particolari, osservando le responsabilità di ognuno di noi come individui, senza delegarle alle organizzazioni che pretendono guidarci, facendo in fondo solo i propri interessi corporativi e personali.

Giunge, pertanto, l’ora in cui anche da noi si torni a riscoprire e valorizzare il lavoro ed il merito, emancipandoci dalla schiavitù del morboso paternalismo in cui si afferma solo un dannoso corporativismo demagogico. Le nostre classi dirigenti sembrano negarsi a riflettere; pare che non capiscano il male che in questi ultimi anni hanno saputo consolidare. Questo modello è solo un castello di sabbia artificialmente sostenuto dalle teorie, da tante chiacchiere e pochi fatti. Questo insieme di cose, questo modo di pensare secondo il quale a noi competerebbero più diritti piuttosto che doveri, danneggia tutta la collettività e ne compromette, forse, in modo irreparabile l’avvenire. Sembrano inutili anche le esperienze ed i risultati fallimentari di tanti anni di ambigui esperimenti definiti “umanitari” o di ambigua solidarietà.

Possibile che non si capisca l’urgente necessità di smettere una buona volta di dar enfasi ad un’ipocrita ed artificiale solidarietà costituzionalizzata? La solidarietà non può essere imposta, essa è un bisogno ed un dovere civico individuale e spontaneo, come la stessa fede che di natura intima e non deve essere confusa con la militanza.

Se qualcuno si fosse scomodato a leggere un po’ di Frédéric Bastiat al posto di continuare a seguire le deleterie politiche di Keynes, oggi certamente le nostre prospettive potrebbero essere ben altre. Infatti, sarebbe stato ben più opportuno congedare quell’ endemica eredità il cui prezzo pesa sulle nostre generazioni; infatti, il rispettivo costo è già stato pagato inutilmente pure dalle generazioni che hanno preceduto le nuove leve, avendo impegnato perfino risorse non ancora disponibili, indebitando addirittura le generazioni che ci seguiranno.

E’, dunque, inevitabile che i danni originati dagli equivoci perseguiti con continua e rinnovata ostinazione siano destinati a ripercuotersi ancora per molto tempo ed i nodi al pettine, inevitabilmente giungeranno oper destarci da questi equivoci. La cecità dei presuntuosi governanti, aspiranti profeti di turno, è riuscita ad ipotecare niente meno che i sacrifici dei nostri innocenti posteri che dovranno sopportarne le spese; infatti, essi, fatalmente nasceranno debitori dei peccati altrui per i quali non avranno alcuna colpa.

Perciò, non si tratta solo di riparare lo sviluppo compromesso che questo modello ha purtroppo mutilato, ma bisogna creare con urgenza nuove prospettive oggi inesistenti . C’è da restituire un po’ di ottimismo ai membri impotenti della nostra società inerme che ormai sembra quasi rassegnata, a definitivamente arrendersi a quella specie di sindrome di pessimismo.

Proteggersi dall’invasione di prodotti, di individui od idee provenienti da fuori non risolve, anzi peggiora; anzi, dobbiamo conservare il coraggio di confrontarci. La soluzione è quella di rimboccarsi le maniche e dare lo stimolo ai privati più abili e capaci, affinché tornino ad investire, a rischiare il proprio patrimonio in cambio di un possibile utile guadagno da applicare, poi, nella ricerca di nuovi prodotti, nuovi servizi, nuove soluzioni ai problemi dell’attualità. Nessuno meglio del mercato – ordine spontaneo – sa interpretare meglio le necessità degli individui in un preciso momento. Il mercato è costituito dall’universo degli individui che aspirano a qualcosa che deve essere seguito. Chi pretende creare certezze per proprio conto rivolte a tutti, senza rendersene conto, prepara l’obito del progresso stesso.

La Nazione che teme la concorrenza, che si lamenta di doversi affacciare ad un avvenire così incerto, che non sente la necessità di rinnovarsi, che vorrebbe schivare le leggi della natura invece di affrontarle, e che ricorre ad ogni genere di sotterfugio ed espediente, pur di evitare il salutare confronto, non ha molte possibilità di vincere la disputa dei mercati e della competenza, ogni volta più efficienti. Ma, ahimè, nel nostro piccolo mondo provinciale e mediocre sono ancora troppo numerosi coloro non comprendono l’utilità di confrontarci e di competere continuamente; infatti, si ritengono ancora – e chissà fino quando – di essere più i astuti dell’ universo, continuando ad abitare l’epicentro del mondo, come se fossimo un Popolo eletto da chissà quale misteriosa divinità. Eppure, l’epicentro in questi decenni si è spostato in continuazione e se non ce ne rendiamo conto non ci resta che aspettare di diventare vassalli del progresso altrui.

Inizialmente pubblicato su www.legnostorto.com il 24 agosto del 1994