IL REGIME GATTOPARDO di Mauro Mellini (Recensione)

Ed i Nemici delle Utili Riforme.

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Noi Italiani, come, del resto tutti i Popoli, siamo convinti di avere molte cose di cui vantarci e siccome, già di natura, siamo anche piuttosto vanitosi, non ci dispiace esaltare tutto ciò che possiamo riprendere dal passato pur di esibire la nostra “grandezza” ed aggiungerla sul conto a nostro favore, dimenticando, invece, quasi del tutto altrettante nostre arcaiche eredità che al contrario ridurrebbero la somma dei nostri attivi, ma che in compensazione ci potrebbero aiutare a capire meglio da dove trarre le migliori lezioni…: dai successi o dai fallimenti? Ma si sa che purtroppo preferiamo ripercorrere le vie della storia antica altrui, piuttosto di seguire strade di storia di nostra propria “produzione”. Certo, è più facile rispolverare le gesta dei nostri (?) antenati, piuttosto di produrne noi stessi.

Invece, perché non lasciare un po’ da parte le – vere o pretese – nostre grandi virtù? Non potremmo limitarci di rievocare continuamente i “nostri” soliti grandi personaggi per i quali, onestamente, non possiamo vantare meriti, ma la cui fama serve unicamente a confondere, inebriare ed illudere, se non ad ingannare, aiutandoci solo a gonfiare inutilmente il petto del nostro orgoglio dinanzi agli altri? Non sarebbe, forse, meglio se analizzassimo i nostri errori; se cercassimo di capire anche cosa c’è di sbagliato sotto il nostro naso? Non sarebbe più costruttivo soffermarci ad osservare meglio il presente e, magari, meditare con lo sguardo rivolto anche all’avvenire? Indubbiamente. Infatti, un po’ come il distratto Talete che preferiva osservare gli astri, senza accorgersi dove metteva i piedi, noi, analogamente, evocando i pretesi “nostri” illustri LeonardoMichelangeloGalileo, dimentichiamo di riflettere sulla più vicina e concreta nostra realtà. Eppure, senza trasformazioni non c’è progresso, né evoluzione.

Ecco, proprio per questa nostra superficiale propensione a rispolverare l’ego dei lontani storici tesori altrui, sottovalutiamo le miserie del nostro vicinissimo presente e ciò che è peggio, non pensiamo al nostro futuro. Così, da una parte siamo un Popolo eccessivamente spensierato, presuntuoso e provinciale e dall’altro, percependo che la nostra grandezza si cela se non del tutto, ma principalmente, solo nella storia trascorsa, appena ci rendiamo conto della cruda realtà e dei rispettivi problemi, la rassegnazione ci induce al pessimismo. Eppure, potremmo imparare a reagire con l’azione, ispirandoci a ciò che avviene altrove, all’esterno di casa nostra.

Ma, purtroppo, confrontandoci con gli altri, preferiamo consolarci a guardare indietro, alimentandoci delle presunte “nostre” glorie del passato, senza capire che ogni Popolo prima o dopo realizza o ha espresso le sue. Oggi, per esempio, assistiamo al discreto tenore di vita in Australia o Nuova Zelanda o come la giovane economia brasiliana ha ormai superato anche la nostra. In sostanza, non ci concentriamo abbastanza sul presente ed ancor meno meditiamo seriamente sull’avvenire; forse, un po’ per tradizione religiosa, ci affidiamo con leggerezza alle preghiere, ingenuamente ai nostri santi ed in modo puerile ai miracoli, dando eccessivo credito alla provvidenza: eredità che deriva dalla fede lungamente alimentata dalla discreta ed eccessiva superstizione. Ebbene, un po’ come scrive quel grande liberale – Premio Nobel per la letteratura -, Octabio Paz, anche noi come i suoi conterranei messicani, tendiamo a guardare troppo indietro, dimenticando di preoccuparci del nostro presente, mentre impreparati, in maniera inconsapevole, affrontiamo incuranti l’avvenire. E così, invece di considerare il cambiamento con ottimismo, come una vera opportunità ed una possibile alternativa per la  speranza, qualsiasi trasformazione ci ispira dubbi negativi e timore; tanto è vero che attualmente soffriamo di una contagiosa sindrome del pessimismo che si espande a macchio d’olio. Eppure, senza trasformazioni non c’è progresso, né evoluzione.

Ed infatti, il celebre capolavoro IL GATTOPARDO, del nobile siciliano Tomasi di Lampedusa, descrive bene come funziona quella rassegnata società conservatrice. Non è, dunque, per caso che nel nostro caro ma – a quanto pare – non abbastanza maturo Paese, questo culto di conservare piuttosto di cambiare resiste tenacemente. Per cui gli ostinati sforzi dei vecchi poteri si concentrano sui cambiamenti unicamente con la specifica finalità di consolidare la conservazione: si cambiano norme, si modificano regole e si elaborano leggi affinché tutto possa rimanere pressoché uguale. Ed è, appunto, a questo emblematico romanzo che il giurista Mauro Mellini si riferisce nel suo eccellente saggio. Il libro può produrre sconcerto, rabbia e stizza, ma illustra bene alcune verità. L’autore analizza, ancora una volta, tutta una serie di degenerazioni del modello politico istituzionale talmente condizionato da impedire perfino il progresso del Paese, limitando la nostra capacità di adeguarci alla modernità, mentre altri Paesi – magari, storicamente anche meno qualificati -, sono amministrati con efficienza e progrediscono senza subire tanto le crisi tanto ora ci affliggono.

Ma, ahimè, siamo la patria di Pulcinella, di Arlecchino ed il Paese che ha dato vita a Pinocchio; che ha inventato l’opera buffa e che ha perfino condotto in parlamento una modestissima commediante pornografica: quella Cicciolina dagli umili seni esposti al pubblico durante affollati comizi. Siamo pure la Nazione dove per eccellenza uno svogliato stato burocratico si avvale ancora oggi delle marche da bollo; dove ogni iniziativa privata dipende dal benestare del potere pubblico, per la convalida di permessi, licenze, contratti e documenti vari; dove è sempre l’individuo a dover dimostrare la propria onestà, mentre starebbe a chi ne dubita a dover dimostrare il contrario; dove un po’ tutti siamo indotti ad elemosinare deroghe ed eccezioni… e, senza rendercene conto, dunque, è da tutto ciò che possiamo concludere di esserci fermati nel tempo. Così, in questo complicato ed ostile ambiente, tutti dipendono dai favori del potere; infatti, tutti hanno – abbiamo – bisogno di scorciatoie e di raccomandazioni, circostanze che, a loro volta, alimentano la corruzione. Ed allora si valorizzano ancora di più certi privilegi, tipici delle caste arcaiche dei Paesi più arretrati, che rimangono ancora ai margini dell’evoluzione come, giustamente, scriveva il sociologo americano Edward Banfield già molti anni fa. E, nonostante questo, siamo un Paese ed un Popolo creativi per eccellenza e questa volta sono gli altri a riconoscercelo; ecco, è proprio qui che si spiegano le ragioni del nostro ritardo e cosa impedisce all’Italia di accompagnare il ritmo evolutivo di Paesi sviluppati, anche più modesti o più grandi, più popolosi o meno. E le potenzialità non mancano, ma a cosa servono se non le applichiamo?

Se non bastasse, ci sono pure i corporativismi delle diverse categorie ad aggiungersi a questo deleterio congegno d’intriganti complicità: vere caste alleate che si proteggono reciprocamente; esse, in certa maniera, condannano gli Italiani all’eredità di un immobilismo che ci inchioda al passato; una schiavitù che ha paralizzato il modo di pensare della nostra gente, mentre si dovrebbe far fare un salto alla mentalità nazionale, avviandola verso una vera e concreta modernità, dove ogni nostro individuo sa di incarnare se stesso non solo nei suoi legittimi diritti che il sistema riserva ad una specie di suddito sottomesso, ma anche, e soprattutto, nei suoi sacri doveri di cittadino ambizioso e responsabile; dove la maggior parte dei singoli membri della collettività possa concepire i veri valori del merito, aspirare a qualcosa di più di una semplice prematura pensione, senza che ignare moltitudini preferiscano rassegnarsi a rimanere succubi di poteri quasi medievali, ai quali il regime riserva le prerogative di provvedere grottescamente ai bisogni individuali più elementari, più privati e perfino più intimi. Praticamente, hanno distrutto lo stimolo individuale ad arrangiarsi, impedendo anche ai capaci di sfruttare al massimo le capacità e le potenzialità del proprio capitale umano; una generazione intera disinteressata che si arrende alla frustrazione, senza reagire, non si cura nemmeno di cercare nemmeno altre opportunità per soddisfare nuove aspirazioni.

Ebbene, IL REGIME GATTOPARDO di Mauro Mellini dipinge molto bene questo triste quadro e non esita a denunciare come queste caste si arrogano prerogative per l’artificiale “protezione” dei propri sudditi, imponendo loro un equivoco sistema coercitivo di solidarietà, liberando gli individui, in un certo quel modo, da una buona parte non solo di responsabilità, ma anche di utili ed opportune ambizioni. Naturalmente, questo paternalismo, fatto di imposizioni, non è gratuito, né di natura sincera e generosa: la classe dirigente che si spaccia abilmente da altruista, in realtà fa i propri calcoli e presenta sempre il suo conto che è più salato di ciò che si suppone; si paga con la rinuncia alla propria sovranità. Infatti, si tratta di un vero assedio da parte di un regime che ha come unica finalità la difese di interessi privati e corporativi specifici; infatti, mediante la conservazione dei propri privilegi, avvalendosi di ogni sorte di mezzi e pretesti, affinché il controllo del potere possa permanere nelle stesse mani, i membri del sistema giocano la loro partita d’azzardo. Poi, appena un “estraneo” che prometteva riforme e modernizzazione – senza avere ulteriori particolari bisogni, oltre ad una certa dose di ambizione personale – si è avventurato, riuscendo ad intromettersi attraverso legittime scelte dei cittadini, le caste hanno subito reagito, scatenando odio mai visto prima negli ultimi decenni, mettendo in campo tutto il proprio “arsenale” per combatterlo nel dichiarato tentativo di distruggerlo.

Ed è proprio nella qualità di attento osservatore, di competente giurista e di costruttivo critico che egli indica, con oltremodo convincente efficacia, condita da eloquenti quanto didattici argomenti, le tante responsabilità del “regime”. E qui Mellini senza esitazioni chiama in causa con precise accuse quello che egli – in un altro suo coraggioso quanto noto saggio – definisce esplicitamente IL PARTITO DEI MAGISTRATI. Infatti, punta l’indice direttamente contro personaggi che agiscono in palese favore del potere che, a sua volta, opera chiaramente in proprio beneficio, avendo saputo e potuto fare, in questi ultimi anni il brutto ed il bel tempo, superando non raramente, gli stessi limiti delle proprie specifiche funzioni, per inserirsi in altre sfere ed occupandosi, per esempio, molto di più di politica che di giustizia propriamente detta. Così, hanno sfruttato le proprie inattaccabili posizioni per combattere ed accusare i propri avversari più scomodi; altri ancora, dopo aver creato i propri scudi legali, con il pretesto di difendere i diritti dei “lavoratori” – come se gli imprenditori non lavorassero – hanno, in molti casi, perfino sostituito gli stessi poteri del legislativo e dello stesso governo. Pertanto, non meraviglia se qualcuno sostiene che certi magistrati sembrano agire al di sopra della legge, proprio perché essi si considerano la Legge stessa. Sull’altro fronte, lo stesso corporativismo sindacale ha anche generato diversi critici, usciti dalle proprie strutture che, con numerose pubblicazioni, hanno denunciato le gravissime anomalie che al limite della legalità ed oltre la moralità, coinvolgono quelle organizzazioni.

L’autore spiega, quindi, con quali forze queste caste si oppongono alle utili riforme che potrebbero, però, indebolire quella intricata intelaiatura su cui poggia il nostro obsoleto modello. Egli riassume pure le origini di queste degenerazioni, indicando come e quando una specie di connubio fra politici, sindacati, giornalisti e non pochi magistrati, si era costituito per volontà dello stesso Mussolini durante il fascismo, senza che si dissolvesse, anzi consolidandosi alla sua caduta. Una simbiosi che funziona in modo molto pratico, in sincronia e sinergia che blinda e protegge l’ingranaggio, affinché il regime possa conservare i propri poteri, con l’avvallo popolare ed il sostegno del solito populismo di piazza, con la non rara partecipazione dei veicoli dell’informazione; populismi, ai quali, almeno inizialmente, buona parte degli Italiani avevano anche applaudito con un certo entusiasmo.

Ora, dinanzi alla crisi strisciante, nuovi populisti spuntano per rispondere all’appello degli insoddisfatti; c’è chi lancia minacce velate; ci sono gli ostinati indottrinati resistenti; gli esaltati demagoghi di turno ed a tutti si aggiungono ultimamente nuovi qualunquisti ed ancora comici strilloni, con scarsa intimità con la cura dei capelli. Quasi unanimemente, si aggiudicano un presunto profetico ruolo: riparare all’usurata immagine dei politici che, a loro volta, hanno ormai perso buona parte della loro già compromessa credibilità. Chi più chi meno, vorrebbe far credere al pubblico deluso e demoralizzato, di essere i guaritori di questi mali, i salvatori di questo dramma, capaci di portare a termine le trasformazioni che il Paese tanto attende. Promettono di rompere l’incanto, espurgando quanto – agli occhi del depresso popolo -, di più odioso si è formato in questi decenni. Di estirpare il regime che non solo ha ipotecato e sperperato tutta la ricchezza realizzata con lavoro ed applicazione, consumando in anticipo addirittura quella che le future generazioni dovranno ancora produrre. Quella demagogica classe dirigente incompetente, avvalendosi come al solito, della sua eterna banale retorica, ha indebitato perfino le prossime generazioni; dunque, ha in questo modo praticato la “generosità” consumando il patrimonio altrui, senza sapere come e quando i costi della fattura potranno essere saldati.

E in presenza dell’evidente minaccia che oggi scuote buona parte della vecchia classe politica, gli applausi delle masse sfiduciate spaventano i membri e gli alleati del regime che da tanti anni, con i loro sistemi, paralizzano il Paese. Ma la perversità del potere è tale da riuscire a condizionare perfino buona parte dell’informazione, ridotta a coadiuvante degli stessi congegni dietro ai quali agiscono quei deleteri e non dichiarati interessi al servizio di espliciti privilegi, abilmente coperti e mascherati da un complicato labirinto di norme e leggi machiavellicamente elaborate su misura per la protezione di politicanti, sindacati, magistrati, corporativismi burocratici, giornalistici, cinematografici, intellettualoidi e così via.

Ragione per cui la lettura di questo interessantissimo saggio è oltremodo utile ed opportuna, proprio perché ciò che l’autore espone risulta tanto chiaro quanto coraggioso. Non ci sono dubbi, queste pagine ci permettono di capire come La Nazione non può continuare ad essere gestita come un affare privato di un regime capace di modificare tutto affinché le cose possano rimanere tali. Mellini lancia un grido di sdegno e di protesta perché la modernità tarda e non può più attendere. La gente deve finalmente capire che solo un radicale cambiamento dei costumi sarà in grado di contrastare il regime, eliminando quelle prerogative che condizionano, politica ed economia con normative da sempre alla particolare discrezione di quei pochi che ambiguamente fan credere di agire in favore di falsi interessi collettivi e nazionali.

L’acuto autore qui dimostra, infine, come queste endemiche ed incompatibili anomalie non nascono dal recente e precario modello democratico, né dovrebbero in esso prosperare. Esse derivano proprio da quel vecchio regime; è sopravvissuto al fascismo solo perché riesce ancora a confiscare le più legittime prerogative e libertà dei sovrani cittadini e smercia, in cambio, un ambiguo paternalismo difeso con i denti e con gli artigli anche da chi ricorrendo al pretesto per auto definirsi “parti sociali”, difende la fortezza di potere costruita con i ricatti, mentre si allea fino a sovrapporsi perfino a chi governa ed in questo perverso connubio, ai semplici sudditi, non restituisce altro che mere illusioni, alle quali l’ingenua massa scarsamente illuminata, è stata allenata a ciecamente credere nel più equivoco dei modi.