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3 NEW DEAL di Wolfgang Schivelbusch (Recensione)

Sinistri e Destri accumunati.

Per i soliti simpatizzanti degli interventi pubblici nell’economia, la nota onda riformatrice del presunto virtuoso New Deal, a suo tempo, imposta negli Stati Uniti dal presidente Franklin Delano Roosevelt, sono ancora oggi considerati un utile esempio che la politica statalista dovrebbe seguire. Il poco ortodosso personaggio, invece, con quelle sue astratte misure, più retoriche che pragmatiche, lungi dal correggere le vere cause della crisi, invece di sanare gli effetti della Grande Depressione, impressionato dalle allora controverse trasformazioni e tendenze in corso in Europa – per le quali egli aveva nutrito un entusiasmo per niente celato -, non aveva fatto altro che condizionare ulteriormente la già depressa economia americana.

Lo fanno notare, fra gli altri, diversi importanti economisti che in distinte analisi hanno concluso che con quelle iniziative, amministrando al male un rimedio sbagliato, invece di ricorrere agli antidoti più adeguati, aveva solo allungato la difficile “convalescenza” della grave crisi che si era formata durante la gestione del suo predecessore e che poi si era allargata praticamente al mondo intero.

Fra coloro che sostengono tale tesi, ci sono i due prestigiosi Premi Nobel per l’economia Milton Friedman (Scuola di Chicago), F.A. von Hayek (Scuola Austriaca), ma anche tanti altri pensatori come il libertario Murray Rothbard, dedicheranno all’ assunto capitoli e saggi interi, spiegando come il modello economico americano adottato a partire dal secondo fino al quarto decennio del secolo scorso, era ormai fortemente compromesso dall’irragionevole indisponibilità da parte dei presidenti del Partito Democratico, di ridurre il condizionamento politico del mercato del lavoro. Infatti, in modo demagogico, avevano dato parziale quanto futile sostegno anche a fallimentari imprese private improduttive, pur di mantenere artificialmente l’occupazione e, difendendo il conseguente eccessivo elevato livello del costo salariale, insieme alla devastante espansione dei crediti, invece di stimolare investimenti produttivi, avevano fomentato un’illusoria quanto artificiale speculazione finanziaria generalizzata che poi doveva finire per degenerare nel famoso crollo delle borse e provocava la successiva corsa al ritiro dei risparmi da parte della popolazione. Ed è questo che causerà la famosa crisi, sfociando nella Grande Depressione degli anni ’30. A prova di tanto può servire pure la lettura del pamphlet GREAT MYTHS OF THE GREAT DEPRESSION (Grandi Miti della Grande Depressione) di un altro autorevole economista liberale – Lawrence W. Reed – presidente della Foundation for Economic Education e già presidente del “think tank” Mackinac Center for Public Policy.

Come si suol dire salomonicamente, niente di nuovo sotto il sole: un fenomeno analogo era già stato registrato alla vigilia della decadenza subita dalla gloriosa e fiera Repubblica di San Marco e che dovrebbe servire da lezione. Infatti, quando il capitale è impiegato male ed è applicato nella pura comoda speculazione, mentre gli investitori si illudono di poter, finalmente, godere il frutto del guadagno accumulato e di potersi permettere di “tirare i remi in barca”, vivendo solo di rendita, il declino dell’economia diventa inevitabile. Non per niente, quando i facoltosi commercianti veneziani, avevano abdicato alle loro più tradizionali vocazioni, invece di continuare ad investire innovando, per conservare i propri mercati e seguire nuove rotte marittime, essi avevano immobilizzato i loro patrimoni nella costruzione delle loro magnifiche Ville Venete, ed in luogo di modernizzare la propria obsoleta flotta, si davano allo spensierato svago nel lusso con belle mondane e del gioco d’azzardo. I Paesi affacciati sull’Atlantico, al contrario, a poco a poco, uno dopo l’altro, evitavano la vecchia via della seta, cominciando a costruire imbarcazioni più moderne, veloci e di maggiore stazza, capaci di affrontare mari più aperti e lontani, circumnavigando l’Africa, li avevano superati. Così, l’epicentro del commercio si spostava ad Ovest, sostituendo quello che nel Mediterraneo era stato per parecchio una specie di monopolio degli scambi con l’Asia.

Ma tornando agli statalisti, quando il potere pubblico si aggiudica prerogative paternaliste, con interventi che condizionano quello che dovrebbe essere un mercato aperto e spontaneo, in detrimento della libera iniziativa, preferendo la retorica solidarietà istituzionalizzata in cui si premia non l’efficenza, ma la militanza a scapito del giusto merito, e così facendo si inibisce anche la disposizione a correre rischi, scoraggiando le stesse iniziative individuali, è naturale che si stimolino, al contrario, le speculazioni finanziarie; e le conseguenze sono sempre le stesse: generalmente, contrarie a ciò che si intende ottenere. Un esemplare caso di tale distorsione – in scala minore a quella degli anni ’30 – lo si è vissuto anche di recente, sempre negli Stati Uniti durante l’amministrazione di Bill Clinton. Infatti, con la sua discutibile e demagogica politica che facilitava la forte espansione creditizia, una sorta di allegra economia aveva stimolato gli Americani ad ipotecare le loro case giusto per poter aumentare i propri consumi o per lucrare in borsa. Tuttavia, quando i debiti arrivavano alla propria scadenza ed avrebbero dovuto essere riscattati dal sistema bancario, all’improvviso, le banche dovendo inondare in maniera anomala l’offerta dei beni impegnati nel mercato immobiliare, generava un’eccessiva offerta di quanto ipotecato che, a quel punto ormai nessuno riusciva a riacquistare, creandosi una situazione assolutamente anomala ed insostenibile. A corto di liquidità e buona parte dei cittadini – ormai inadempienti – non disponendo di altre risorse per saldare i propri debiti, vendevano i titoli, inflazionando l’offerta, mettevano in crisi tutto il sistema economico, facendo scoppiare la bolla speculativa delle borse, con ripercussioni sulle finanze in tutto il mondo. E di questo parere sembra essere pure Tim Congdon – ex consigliere economico della Thatcher – che sostenta proprio questa tesi nel suo saggio MONDEY IN A FREE SOCIETY.

D’altronde, si apprende anche da altre fonti come l’andazzo a favore dello statalismo era già in atto fin dai primi interventi governativi dovuto alle idee dell’indottrinato sociologo antirazzista, W.E.B. Du Bois, di forte inclinazione socialista, che attribuiva il razzismo nei confronti dei negri, al sistema capitalista. Con ciò, aveva influenzato significativa parte del Partito Democratico del presidente Woodrow Wilson, prima, seguito da F.D. Roosevelt, poi, e quella tendenza proseguiva nel Partito, fino ad arrivare a Clinton ed ora, Obama dei nostri giorni. Parte di queste osservazioni ce le rivela – fra gli altri – pure l’autore americano Jonah Goldbergcon il suo saggio LIBERAL FASCISM: The Secret History of the American Left, From Mussolini to the Politics of Change (2009), in cui punta il dito direttamente contro le amministrazioni che, dai primi anni Venti in poi, interrompendo diciotto anni di dominio repubblicano, avevano introdotto grandi cambiamenti di direzione, assimilando fra l’altro anche le allora innovatrici idee del Fascismo. Purtroppo, l’ostracismo nostrano, ha silenziato la meraviglia che aveva destato il successo di Mussolini, per il quale lo stesso sindaco di New York James John Walker non risparmiava lauti elogi, manifestando grande ammirazione pubblicamente dichiarata. Di fatto, il prestigio che allora era attribuito al Duce era tale che perfino il famoso compositore Irving Berlin gli aveva dedicato una famosa canzone…

Ebbene, per tornare al New Deal che è il più classico modello di pretestuoso intervento economico politico da parte del potere pubblico, Roosevelt, molto attento a ciò che avveniva in Europa, si era addirittura già convertito ad ammiratore del paranoico Stalin, esecutore dei deleteri e disumani piani quinquennali d’industrializzazione forzata, con i quali l’orwelliano Grande Fratello aveva anche ottenuto momentanei risultati sorprendenti. Così, il neo eletto presidente americano, in palese coerenza con le sue non celate simpatie per l’economia pianificata, poco dopo aver assunto l’incarico, nel Novembre del 1933, si era affrettato a ristabilire normali rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica che gli Stati Uniti, dopo la Rivoluzione Bolscevica, avevano interrotto. Se non bastasse, fra i suoi diretti collaboratori e consiglieri non erano affatto rari quelli che simpatizzavano in modo dichiarato con le innovazioni collettiviste sovietiche.

Ma oltre agli eventi prodotti e pubblicizzati dal collettivismo sovietico, Roosevelt aveva seguito con altrettanta attenzione e particolare interesse le conseguenze della nuova onda fascista in Italia prima e nazista in Germania poi, e non aveva per niente dissimulato il suo dichiarato entusiasmo, ed altrettanta ammirazione esternava per il teatrale dinamismo inscenato da Mussolini, il cui modello aveva già conquistato forti simpatie fra i Tedeschi che, analogamente intenti a superare la crisi, così come  in Italia, avevano subito ben peggiore umiliazioni dal trattato di Pace di Versailles. Ed ecco che il nazionalismo aveva acceso nuovi sentimenti, dando impulso ad un comune desiderio di riscatto delle rispettive dignità; ed il successo riscosso in Italia dal Duce aveva già molto impressionato lo stesso Hitler. Il loro prestigio in America non derivava solo dagli innovativi metodici interventi nell’economia guidata da quei regimi, ma anche per i modi in cui i due avevano saputo aggiudicarsi il potere, “legittimato” da una vasta e condivisa popolarità, ottenuta in maniera del tutto particolare, sfruttando abilmente un nuovo modo di diffondere con certa aggressività la propaganda.  Da qui, dunque, il saggio di Wolfgang Schivelbusch che descrive in molto eloquente i parallelismi fra i tre modelli di NEW DEAL.

Le analogie politiche in rapporto al Fascismo adottate da Roosevelt, infatti, non erano poche e l’autore spiega come in una determinata opportunità, in presenza di giornalisti, il presidente, alludendo a MussoliniStalin, aveva definito i due addirittura come “fratelli di sangue”. In più, riferendosi anche a quanto osservato da Maurizio Vaudagna – accademico di storia presso l’Università degli Studi di Bologna -, in MUSSOLINI E ROOSEVELT, l’autore Schivelbusch cita una frase, a suo tempo, pronunciata in privato proprio da Roosevelt ad un corrispondente, in cui confessa perfino: “Non mi perito di dirle, in confidenza, che mi tengo in contatto piuttosto stretto con il degno gentleman italiano.” Schivelbusch aggiunge, pure, come il braccio destro del presidente – uno dei principali ideatori e coordinatori del New Deal -, Rexord Tugwell che poi sarà nominato governatore di Puerto Rico, dopo aver coperto importanti funzioni alla guida economica del Paese, era apertamente avverso all’iniziativa privata e nutriva una decisa preferenza per l’economia pubblica pianificata, senza nascondere il proprio apprezzamento per il modello sovietico, mentre dimostrava forte rispetto per le riforme realizzate da Mussolini e ne elogiava le iniziative per il controllo dei media. Infatti, poi, lo stesso Roosevelt le aveva adottate, imponendo misure restrittive ai mezzi di comunicazione per il controllo della stampa impedita di pubblicare critiche nei loro confronti.

E qui forse è opportuno aprire un’altra parentesi, osservando come un’ autrice del calibro di Hannah Arendt, nel suo saggio ORIGINI DEL TOTALITARISMO, dichiara di non considerare il Duce un totalitario al pari del Führer o di Stalin.   E, forse, è utile aggiungere che non c’è da meravigliarsi, se il nostro brillante autore Roberto Gervaso ha voluto includere Mussolini fra i personaggi non solo nel suo libro dedicato a I DESTRIma anche, se non soprattutto,  fra I SINISTRI, accanto a Nicola Bombacci, cofondatore del Partito Comunista Italiano, il quale molto coerentemente, poi,  si assocerà al Duce, rimanendogli vicino fino alla fine. In fondo, tanto il modello fascista come quello collettivista, ad un certo punto, si avvicinano tanto che le loro idee si accavallano, confondendosi. Non per caso, tanto i nostri sinistri come i destri, ancora oggi, quasi quasi si equivalgono, se non altro, nell’inclinazione verso politiche paternaliste ed interventiste del cosiddetto Welfare che hanno, appunto, caratterizzato pure Roosevelt. Lo stesso si può dire a proposito di tutta una serie di aspiranti “ducetti” un po’ in tutto il mondo, ma specialmente in America Latina dove, per esempio, da una parte Getulio Vargas in Brasile,  al quale il presidente americano non nascondeva altrettante simpatie; e, più tardi anche il Generale Juan Domingo Peron, in Argentina; questo, dopo aver partecipato nel 1939 ad una missione militare in Italia, e dopo essere stato nominato segretario del Lavoro e della Sicurezza sociale, ricorrendo alla retorica imparata in quell’opportunità, era riuscito ad appropriarsi dei sindacati, dove ahimè, ancora oggi quella demagogica ricetta fa testo. Infatti, gli Argentini, dopo tanti anni, non si sono ancora liberati da quel suo perverso populismo che da decenni, sopravvive e regna sotto l’ambigua espressione di “giustizialismo” con la falsa pretesa di difendere i cosiddetti “descamisados”; ed i risultati li abbiamo manifestamente sotto gli occhi: quella che era una Nazione oltremodo prospera, ora, è in piena decadenza…

Così, la maggior parte degli avversari di quello che il grande economista della Scuola Austriaca, Ludwig von Mises, chiama l’Ordine Spontaneo del libero Mercato, e dai marxisti di piantone sommariamente identificato  con l’odiato Capitalismo, continuano ad attribuire ad esso le cause della Grande Depressione. E sono sempre zelanti nell’ esaltare le fittizie cure praticate dal New Deal e, invece di ammettere più realisticamente che quella crisi dev’essere imputata proprio alle distorsioni ed alle misure degli inadeguati interventi politici. Naturalmente, si rifiutano a riconoscere che l’intromissione politica ed ideologica possa aver compromesso lo spontaneo andamento delle naturali tappe economiche. Si sa, per esperienza, come più si cerca di guidare l’economia e più essa trova come svicolarsi dal giogo; una sana economia dev’essere lasciata di preferenza a se stessa, condizionata non da pochi, bensì dall’insieme, dall’universo dei consumatori che ne dettano la direzione con le libere scelte degli individui. Infatti, le loro legittime aspirazioni non si possono pianificare, visto che in tempi e luoghi distinti i singoli individui possono esprimere scelte mutevoli, in funzione della dinamica realtà, potendo eventualmente pentirsene, dando preferenza anche a nuove o vecchie prerogative, in funzione delle proprie imprevedibili esperienze che generano altrettante nuove nozioni, da cui nuove emozioni determinano altre priorità. Pertanto, in seguito alle proprie interpretazioni della realtà, anche le aspirazioni sono soggette a continui adeguamenti, dipendendo perfino dal proprio legittimo instabile stato di umore che può passare dall’euforia alla depressione e dallo sconforto all’entusiasmo. Ragione per cui, solo noi stessi possiamo conoscere come, dove e quando e quali aspirazioni perseguire.

Detto questo, uno degli elementi che Roosevelt – ma prima di lui anche lo stesso Hitler – aveva apprezzato era la straordinaria abilità del Duce di attirare e conquistare le simpatie delle moltitudini che incantate ascoltavano con smisurata passione i suoi pronunciamenti populisti, con i quali inneggiava agli ideali nazionalisti tanto denigrati dalle sinistre. Con frasi di forte effetto dirette all’impressionabile emotività del pubblico, ricorreva abilmente alla solita retorica paternalista; adottava il linguaggio che il Popolo capiva ed apprezzava, sfruttando con ricercato opportunismo anche il nuovo mezzo di diffusione come la radio. Questa, insieme alle famose “veline” (istruzioni) che erano distribuite d’ufficio ai giornali indotti a pubblicare anche le sue foto nei campi in atteggiamenti maschi, a dorso nudo, che lo trasformavano in figura oltremodo popolare e carismatica, come non si era visto prima. Con la sua teatrale loquacità, sapeva scegliere i toni ed il ritmo, sovente con ironia, entusiasmando l’ascoltatore, che in questo modo si sentiva anche chiamato in causa come interlocutore nelle sue infiammate quanto scaltre recite. Così, riusciva a conquistare la sensibilità degli Italiani che lo applaudivano come un eroe, dall’intrepida capacità di riunirli in un’unica Nazione, in pratica, non ancora totalmente unificata. Inoltre, divulgava con efficace pubblicità le sue riformatrici realizzazioni che, davano evidente sterzata al Paese. Aveva acceso nuove speranze per il riscatto della dignità persa, valorizzando il patriottismo. Senza mostrare debolezza nei confronti della lotta contro la mafia, i servizi postali e ferroviari tornavano ad essere puntuali e, reprimendo scioperi, aveva stimolato l’occupazione, concedendo perfino il “sabato fascista”; non temeva di affrontava  il minaccioso pericolo comunista a viso aperto, reprimendo soprattutto i disordini provocati dal più intransigente sindacalismo, intollerante e violento che occupava fabbriche intere. Insomma, era riuscito a farsi riconoscere da molti come salvatore nazionale. Effettivamente, aveva illuso la grande maggioranza di aver liberato l’ Italia dalle frustrazioni emerse dalla gravissima crisi derivata dalle delusioni della Prima Guerra Mondiale. Questi argomenti li tratta in maniera eloquente anche Pareto nel saggio TRASFORMAZIONE DELLA DEMOCRAZIA.

Con l’abilissima propaganda degli investimenti in opere pubbliche, si avvaleva della demagogia nazionalista, alludendo in maniera abbastanza stravagante anche alla grandezza dell’italico Popolo, legittimo erede della gloria di Roma, concetto che si riproduceva perfino nell’architettura monumentale classicheggiante, imitata poi anche all’estero, perfino in Unione Sovietica e Cina; e da buon commediante, con folcloriche istrioniche virili esibizioni, coperto di sudore nei campi, incoraggiava i coltivatori ad imitarlo nel suo bene inscenato entusiasmo per lo sforzo fisico: e proprio quegli atteggiamenti, ben studiati, erano serviti pure come utili esempi anche a Hitler prima e tanti altri governanti poi, che avevano opportunamente imparato le recite. Fra questi lo stesso Roosevelt che aveva intuito  bene come quei modi erano utili a consolidare il proprio potere. Naturalmente, dopo che il Fascismo da una parte ed il Nazismo dall’altra si erano avventurati nei loro rispettivi bellicismi, anche il presidente americano prendeva non solo le distanze, ma si era  perfino opposto ai due regimi.

3 NEW DEAL è un didattico saggio, scritto con chiarezza da un attento osservatore; utile alla comprensione di un importante ciclo della storia mondiale, ha il pregio di analizzare aspetti di cui la nostra più che equivoca politica mancina non osa parlare, avendo condannato certe innegabili verità ad un oscuro ambiguo ostracismo. Il saggio, dunque, costituisce un’ eloquente quanto valida lezione che illustra contesti che tanto hanno condizionato il secolo scorso e contribuisce a ristabilire certe verità storiche che ci permettono di confrontare e chiarire come regimi di destra, pur essendo opposti a quelli di sinistra, non sempre si distinguono eccessivamente fra di loro. Fra l’altro, perfino certi governi che si spacciano per democratici, ancora oggi si avvalgono di analoghi espedienti coercitivi presi in prestito da queste varianti di New Deal. Non per niente, quei politicanti che solitamente esaltano il tanto celebrato New Deal, dimenticano come uno dei più convincenti detrattori di Franklin Delano Roosevelt, ovvero, l’autore americano John T. Flynn – al quale poi si era ispirato lo stesso libertario Murray Rothbarth -, a suo tempo, aveva dedicato alcuni saggi per demolire l’immeritata fama di democratico, descrivendo il suo governo come una forma di Fascismo americano.

E non di rado, anche questi governi, per aggraziarsi le correnti di sinistra, ricorrono ai più sfacciati populismi senza disdegnare male dissimulati atteggiamenti ipocriti, in cui adottano queste pratiche, facendo proprie le stesse opportunistiche falsità; così, corteggiano regimi autoritari e tirannici d’inclinazione collettivista, come Cuba e Korea del Nord o governi fascistizzanti come quelli del Venezuela, dell’Argentina, Ecuador e Bolivia, in ammucchiate, dove si distribuiscono opportunamente i poteri, riservando comode poltrone e cedendo privilegi ed incarichi ai simpatizzanti di tali illiberali dottrine; allora, si abbandonano criteri etici, in diretta contraddizione con i propri fondamenti democratici, lasciando i nobili principi di libertà in secondo piano. In sospetto connubio, “reclutano” potenziali forze dell’opposizione, senza  il minimo timore di risultare conniventi. Poco importa se poi, in politica estera, rischiano di confondersi con gli opportunisti, in totale complicità con gli illiberali di turno, dimostrando che sovente in determinate circostanze, i diversi possono essere molto più simili di ciò che si è soliti a credere.