I RACCONTI DI KOLYMA di Varlam Šalamov (Recensione)
Innocenza, Orrore e Crudeltà
Questo  certamente non è un romanzo a lieto fine, ma è un drammatico riassunto d’un doloroso destino in cui per l’autore che come tanti altri sudditi dell’allora Unione Sovietica, ha subito le conseguenze della Grande Purga diretta dal paranoico delirante maestro d’orchestra Stalin, per il quale qualsiasi minimo sospetto bastava per far condannare qualcuno – quando andava bene – ai lavori forzati in uno dei tanti temutissimi Gulag e che, in questo caso, come grande eccezione, dopo aver penato per vent’anni l’incubo dei scettici del collettivismo, si conclude a lieto fine. Infatti, nel lontano 1937, Varlam Šalamov, figlio di religioso ortodosse di di un’insegnante, aveva commesso l’imperdonabile imprudenza di criticare il successore di Lenin, ragione per cui era stato condannato per attività contro-rivoluzionarie e spedito a Kolyma. 

Il Gulag di Kolyma è uno dei tanti tragici inferni di cui narra anche Alexandr Solzenicyn in UNA GIORNATA DI IVAN DENISOVIČ  e nel più che famoso ARCIPELAGO GULAG, dove si apprende come , durante la Grande Purga, qualsiasi soggetto accusato anche di semplice presunta dissidenza nei confronti del regime stalinista, era inviato a pagare le proprie pene, lavorando in miniere in condizioni inimmaginabili; soprattutto nelle zone più inospitali della Siberia, dove bisognava resistere alle intemperie di temperature che arrivavano fino a 60°C sotto zero. E guai lamentarsi: i cinici carcerieri reagivano peggiorando la già oltremodo difficile situazione di chi osasse manifestare il solo malcontento, provocandone sovente una lenta ed atroce morte con maltrattamenti, riduzione degli alimenti e  destinando gli insoddisfatti a lavori più faticosi e pericolosi fino ad esaurire loro le rispettive resistenze fisiche per soccombere. 
E per dare un’idea a quali condizioni erano indotti quei prigionieri politici, l’autore polacco Gustav Herling, comparando i Gulag ai Lager nazisti, scriverà: ” Nei campi sovietici non c’erano i forni crematori, non si mandava la gente nelle camera a gas: il risultato però era il medesimo, anche se si uccideva lentamente, attraverso la fame, il lavoro massacrante e il clima”. 
Nel caso de I RACCONTI DI KOLYMA, Varlam Šalamov racconta in particolareggiati dettagli come si svolgeva la difficile vita quotidiana: la sofferenza di gente che arriva e che dimostrandosi scomoda, in poco tempo, perisce; narra di chi nella disperazione, pur sapendo delle scarsissime possibilità di riuscire, tenta la fuga inutilmente; di chi subisce le percosse, le umiliazioni e che per farla finita provoca le guardie, sperando di dar fine al dolore con le facili sommarie fucilazioni; peggiore ancora era il destino riservato a coloro che per caso riuscissero ad evadere e che fatalmente erano presto o tardi catturati. 
Nei Gulag bisognava mantenere i ritmi di produzione; a perdere le forze od ammalarsi si rischiava di essere indotti ad accelerata morte precoce: non c’era posto per chi non riuscisse a produrre il volume dettato dai responsabili, a chi reclamava veniva aumentato il volume da produrre. Gli stessi responsabili del Gulag, avevano delle mete da raggiungere e se non fossero stati in grado di assicurare la produttività, anche loro erano accusati di incompetenza e addirittura di sabotaggio, rischiando loro stessi l’eliminazione. 
Ma l’autore figlio di eruditi intellettuali, era oltremodo attaccato alla propria vita e si sforzava resistendo con grande capacità di sopportazione; tuttavia, anche il suo fisico aveva i suoi limiti e ad un certo punto si era ammalato anche lui; generalmente, in circostanze normali, a chi si ammalava, diventando un peso, si cercava di accelerarne la fine; nel suo caso, invece, per via della propria erudizione, era stato preso in simpatia e compassione dal compiacente medico – prigioniero – sensibilizzato e, contrariando l’amministrazione, era riuscito a riservagli delle cure, in via eccezionale grazie a tale condizione. 
Ed infatti, nel caso specifico per una di quelle rare ironie, è proprio la sua malattia che gli porta fortuna: i medici prigionieri che apprezzavano la sua cultura, con la comprensione della sua scarsa colpevolezza, si solidarizzano e decidono di prendersi cura della sua causa; così, Varlam Šalamov non solo riesce a farsi internare in ospedale, dove conquista anche le simpatie delle infermiere, ma appena guarito, tutti si sforzano a proteggerlo, fino ad essere aiutarlo, permettendogli di seguire egli stesso un corso d’infermiere; è ciò che gli consente di proseguire la sua prigionia sul posto; infatti, superando i non pochi ostacoli, viene assunto come addetto all’ospedale stesso, ciò che gli impedisce di tornare alle famigerate miniere. 
Pertanto, la sua malattia aveva costituito un vero colpo di fortuna che alla fine gli salverà la vita. Infatti, dopo la morte di Stalin, analogamente a numerosissimi casi di innocenti, analogamente condannati, vengono riesaminati e riabilitativa nuovo regime . Lo stesso avviene pure con altrettanti comunisti italiani che durante il Fascismo si erano rifugiati in Unione Sovietica, ma che, a suo tempo, erano stati giustiziati con i più assurdi e grotteschi pretesti, come pure per le più ingenue critiche, espresse fra connazionali.
 A questo proposito è utile anche la lettura di un saggio di Giancarlo Lehner e Francesco Bigazzi che in CARNEFICI E VITTIME ricostruiscono i drammi vissuti dai nostri esuli, per sfuggire alle carceri dei fascisti, avevano scelto l’esilio in Unione Sovietica, dove erano accolti, ma sempre sospettati e mantenuti sotto stretta vigilanza e sovente venivano arrestati per aver semplicemente conosciuto qualche compagno che, per caso, aveva osato lamentarsi dell’abitazione, dell’alimentazione, del riscaldamento, delle condizioni di lavoro, o dei metodi in vigore, ragione per cui venivano fermati, interrogati ed accusati di tradimento.
Naturalmente negavano le assurde accuse, ma sotto dure torture, affinché confessassero non solo le collaborazioni con i fascisti, dovevano denunciare amici e parenti con i quali si erano intrattenuti; dovevano fare i nomi delle loro conoscenze, sia in Italia che in URSS e dopo numerose sessioni di “trattamenti speciali”, in cui non mancavano le intimidazioni con promesse di ripercussione nei confronti di consorti ed i figli – minacciando di riservare anche a loro le stesse torture o addirittura le rispettive sommarie fucilazioni -, fatalmente, cedevano e firmavano qualsiasi dichiarazione già pronta o dettata per le quali  erano condannati alla fucilazione ed i meno sfortunati che, i delatori che eventualmente collaborassero denunciando i propri compagni, magari, si salvavano finendo i propri giorni in uno di questi Gulag. 
Infatti, Lehner e Bigazzi dettagliano tutto, trascrivendo pure i processi farse, a cui dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica hanno potuto esaminare nei particolari degli archivi in cui si descrivono come  gli arresti, gli interrogatori e le sommarie condanne avevano contato con la generosa collaborazione del nostro cosiddetto Migliore, il più fedele seguace di Stalin, ovvero, Ercole Ercoli– alias Palmiro Togliatti  – ed il suo più che degno cognato Sergio Robotti, soggetti che non esitavano ad approvare le sentenze ai propri connazionali. Infatti, la storia raccontata dai sinistri mancini non li ha ancora ricompensati con dovuta Giustizia. Ma a rendere una parziale Giustizia, invece, ci penserà il successore di Stalin, infatti, durante il XX congresso del PCUS, Nikita Krusciov, dopo aver denunciato le tragiche trasgressioni del tiranno, responsabile di milioni di povere vittime innocenti, ha riabilitato coloro che erano stati ingiustamente condannati o giustiziati. Non per niente, alle vedove italiane, il Partito Comunista Italiano, discretamente, passava una specie di pensione, pagata in contanti – con il denaro proveniente da Mosca -, affinché non si lamentassero…  
Ebbene, così, come molti militanti comunisti stranieri – fra cui numerosi Italiani, Francesi, Spagnoli e Tedeschi, fuggiti dai rispettivi regimi di Destra e che avevano pagato con la loro vita l’illusoria scelta dell’esilio nel cosiddetto e presunto Paradiso del Proletariato erano stati riabilitati, anche Varlam Šalamov, sopravvissuto per miracolo, era tornato in libertà, potendo in questo modo avvalersi delle sue memorie e scrivere queste straordinarie pagine, in cui narra questi Racconti che sono uno dei più preziosi documenti che ritrattano i drammi vissuti da innocenti, ridotti a semplici schiavi da sfruttare nelle miniere in condizioni subumane.
Un capolavoro pubblicato, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1999, in traduzione italiana di Leone Metz, con prefazione di Leonardo Coen disponibile anche in una versione del 2010, ridotta di circa 530 pagine che costituisce un autentico capolavoro: una testimonianza storica di cos’è stato capace il collettivismo sovietico; opera veramente da leggere.